I Pokot sono una tribù del Kenya, che vive nel nord del paese africano. Un territorio, racconta la loro storia, conquistato combattendo secoli fa, in battaglie diventate celebri, contro i Masai e i Turkana. Entrare in contatto con i villaggi di quest’etnia più lontani dai centri abitati, è un affascinante viaggio a ritroso nel tempo, quando gli uomini e le donne riuscivano a sopravvivere in terre inospitali e pericolose grazie alla loro abilità nell’adattarsi all’ambiente. L’area dove oggi i Pokot vivono è ricoperta in gran parte da una fitta e arida foresta, difficile da penetrare anche per pochi metri, e afflitta da una cronica mancanza di acqua. Una minaccia incombente, quella della siccità, che periodicamente ha dato vita a conflitti con le tribù vicine. Non integrati dal sistema scolastico del Kenya, i Pokot trascorrono un’esistenza in intensa comunione con la propria terra, che sono disposti a difendere anche con le armi. “Ostili, molto ostili”, così sono oggi descritti, con un misto di timore e di rispetto, dagli appartenenti alle altre tribù che vivono in questa remota parte del paese.
Sono arrivato nella terra dei Pokot nel febbraio del 2012, insieme all’amico e collega fotografo Marco Pieroni, per entrare in contatto con alcune delle etnie che vivono nella regione compresa fra il Monte Samburu e il grande lago Turkana. Raggiungere questa area remota non è così semplice. Partendo dalla capitale Nairobi non bastano dieci ore di off-road, su strade che, soprattutto nella parte finale del viaggio, definire brutte è un puro eufemismo. Con le vibrazioni tramesse dai sassi, tipico letto stradale per centinaia di chilometri, che sembrano avere un canale privilegiato con le vertebre cervicali.
Ma quella che si attraversa così faticosamente è una terra dal fascino magico. Sconfinate distese di “community land”, non incluse all’interno di aree protette, ma spesso popolate dalla grande fauna selvatica africana. Ma che possono essere utilizzate da chi le abita per il pascolo o per un’agricoltura di sussistenza. Così può capitare che branchi di elefanti appaiano, all’improvviso, e attraversino una polverosa strada di sabbia rossa, a ricordarti che quella era, ed è, prima di tutto, la loro terra. Di regola il governo keniota impone, a chi decide di inoltrarsi in queste zone, una scorta armata, nel nostro caso costituita due militari, che dovrebbe rappresentare un deterrente contro i (sembra) relativamente frequenti assalti di banditi di strada. Banditi che, comunque, a quanto mi è stato raccontato, pretendono un “obolo” in denaro, ma non toccano le attrezzature fotografiche che, immagino, non saprebbero come vendere… Cosa, questa che, come fotografo, non poteva che farmi piacere!
Dopo aver visitato alcuni villaggi Samburu, con la nostra guida locale ci siamo spinti all’interno del territorio dei Pokot per almeno una trentina di chilometri. Attraversando, su durissime piste sterrate un “dry bush” basso e fittissimo, uniformemente colorato di grigio e di ocra, i colori della siccità. Un continuum di vegetazione composto prevalentemente da piante appartenenti alla famiglia delle acacie, che l’evoluzione ha munito di lunghe e acuminate spine per difendersi dall’assalto dei grandi erbivori. Una distesa di vegetazione, questa, che appare non toccata dalla mano dell’uomo, grazie anche a quelle che sono le credenze religiose dei Pokot, a cui non è consentito tagliare le piante della foresta. L’economia di questa tribù è incentrata sull’allevamento del bestiame, e su un’agricoltura di sussistenza ridotta ai minimi termini dalla cronica scarsità di acqua.
Contatti con i turisti/ fotografi poco frequenti, permettono di instaurare con gli abitanti dei villaggi visitati un buon rapporto. In cui, dopo un accordo che, giustamente, li ripaghi del disturbo e per la collaborazione, non sono seguite quelle continue richieste di soldi scatto per scatto che sono molto spesso la regola in altre zone dell’Africa. Richieste, va detto, del tutto comprensibili, ma che rendono veramente difficile ritrarre le persone in situazioni di vita “normale”.
Il fascino di questa tribù, al di la della loro straordinaria capacità di adattamento a un ambiente così ostile, è rappresentato anche dalla notevole bellezza di uomini e donne. Quest’ultime ornate da voluminosi ma eleganti collari multicolori, realizzati utilizzando migliaia di perline colorate. Collari che sono indossati anche durante la vita di tutti i giorni, e non solo in occasione di feste e occasioni particolari.
Arriviamo all’alba in uno dei loro villaggi, perso in un bush così arido, che si fa veramente fatica a capire come riescano a viverci, crescendo oltretutto frotte di bambini. Al contrario di altre etnie del nord, buona parte dei Pokot non sono scolarizzati e vivono in una sorta di regale isolamento. Pastori duri e puri, sempre alle prese con il rischio di siccità, rese ormai croniche dai cambiamenti climatici, che ciclicamente rischiano di uccidere prima il loro bestiame, e dopo i loro figli. C’è da stupirsi se, in condizioni così estreme di vita, abbiano la fama di essere aggressivi con chi, magari, prova a sottrargli l’acqua in primis, ma anche i pascoli migliori? Risorse che, per loro, rappresentano semplicemente l’unica chance di sopravvivenza. Alla fine della visita, dopo un paio d’ore di foto, avviene il primo “incidente” del nostro viaggio. Il capo scorta, un Samburu grande e grosso, viene redarguito con violenza da un’anziana abitante del villaggio. Non capendo cosa stia succedendo, visto che fino a quel momento sembrava essere andato tutto liscio, ci avviciniamo e lo troviamo letteralmente terrorizzato, lui corpulento e armato, dalle minacce di una settantenne malmessa. “Roberto, non ci vogliono fare andare via – mi dice visibilmente agitato – dicono di essere stati pagati poco. È gente molto pericolosa, e hanno fucili nascosti un po’ dappertutto”. Sinceramente mi viene quasi da ridere per la situazione, ma anche il sospetto che, nella trattativa iniziale, parte del compenso pattuito sia finito nelle sue marziali tasche. E che i locali, non degli sprovveduti, e che considerano i Samburu rappresentanti del governo centrale, l’abbiano perfettamente capito. Pagato il dovuto, stiamo parlando di cifre per noi certo non onerose, torniamo tranquillamente alla jeep, salutati amabilmente dai feroci Pokot.
In un altro dei loro villaggi, per raggiungerlo almeno quaranta chilometri di strade percorribili solo in fuoristrada, gli abitanti, mentre aspettavamo che migliorasse la luce, ancora troppo violenta per poter scattare, ci hanno proposto la visita a un’attrazione locale. Si trattava, secondo le guide, di una cascata formata da un fiume che scorreva poco distante. Ma, come si dice, a questo mondo tutto è relativo. Il “poco distante” significava più di mezz’ora di jeep su una pista durissima, che si perdeva, scomparendovi in un pianoro roccioso di basalto, reso incandescente da un sole implacabile. Da lì almeno trentacinque minuti di marcia forzata sullo stesso pianoro, che la nostra guida ha affrontato senza problemi a piedi nudi, ci hanno portato ai bordi di un canyon, sul cui fondo, qualche centinaio di metri più in basso, scorreva un rigagnolo di acqua. Che avrebbe potuto formare, nel migliore dei casi, un salto di venti centimetri… Capito che le spettacolari cascate promesse si trovavano, in realtà, “poco distanti” da lì, e viste le limitate scorte di acqua di cui disponevamo, abbiamo quindi convenuto che forse era il caso di tornare al villaggio da cui eravamo partiti…
Qui ci aspettava un incredibile “corpo di ballo” costituito da ragazzi e ragazze con indosso i migliori costumi da cerimonia. Una danza di guerra, canti e strumenti tribali, fuochi accesi, fumo e raggere di luce che, da fotografo, non mi scorderò facilmente. Incredibili Pokot!
Roberto Nistri
Roma, 29 gennaio 2017
Ps. Nel Lake Baringo National Park, dove il territorio dei Pokot si sovrappone con quello di altri gruppi etnici, ad esempio quello i Njemps, che vivono di pesca sul lago, è stato promosso un progetto molto interessante. Per cercare di smorzare la proverbiale “ostilità” di questa tribù sono state introdotte pratiche di “condivisione” delle risorse naturali basilari (acqua, cibo, pascoli), in quest’area decisamente più abbondanti. Un progetto che sta dando, sembra, ottimi frutti, a dimostrazione che, l’uomo rimane essenzialmente un animale “sociale”. Sia che viva in remoti villaggi nel bush africano, che nei palazzoni delle nostre nevrotiche città occidentali.